In vista del Piano di Ripresa e Resilienza, proviamo a distinguere la procedura di telemedicina dal percorso di cura in cui viene incastonata.
Molte circostanze influenzano lo svolgimento di una attività sanitaria, come il luogo (ospedale, ambulanza, casa del paziente) o l’urgenza. Oggi si aggiunge la distanza tra operatore e paziente, che è stata formalizzata dalle «Indicazioni» Stato-Regioni sulla Telemedicina.
Sono un traguardo importante e bisogna ringraziare chi le ha volute, chi le ha scritte e chi le ha portate all’approvazione. Tuttavia, le Indicazioni si concentrano sulla natura della prestazione a distanza e non approfondiscono la trasformazione dei diversi Modelli di Assistenza in cui può essere innestata, es. nei tipi di monitoraggio di complessità crescente, fino alla presa in carico proattiva del Chronic Care Model.
In realtà, bisognerebbe ammettere che i principi delle nostre Indicazioni sono abbastanza simili a quelli del Framework canadese del “Framework of Guidelines” rilasciato in Canada nel lontano 2003, sui criteri a cui attenersi per predisporre, gestire e remunerare una prestazione sanitaria a distanza.
Cosa mi piace molto nell’iniziativa canadese:
- il forte coinvolgimento degli stakeholder,
- il lavoro su più linee, non limitata a produrre il Framework,
- le indicazioni molto dettagliate (123 pagine).
Cosa mi piace poco:
Come le «Indicazioni» italiane, il Framework si concentra sulla qualità della procedura, indipendentemente dai percorsi di cura in cui viene utilizzata. Dopo quasi 20 anni è ancora più urgente andare oltre, rendere operativa la co-progettazione dei modelli di assistenza e del supporto tecnologico.
Questo cambio di prospettiva impatterebbe soprattutto nel territorio, dove il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza PNRR prevede nei prossimi anni un massiccio intervento nei centri di prossimità (case della comunità), con un forte incremento di personale e di tecnologie.
L’iniziativa canadese del 2003: non solo indicazioni
Ma andiamo con ordine. Tornando all’iniziativa canadese (NIFTE, National Initiative for Telehealth) mi piace notare che è iniziata nel 2002 ed è durata un anno e mezzo, coinvolgendo associazioni professionali, fornitori di servizi e di tecnologie, decisori, governo e ricercatori su varie linee:
- una banca dati su iniziative, fornitori e soluzioni di telemedicina;
- l’environment scanning dello stato della telemedicina in Canada (affidato a quattro università);
- una rete nazionale di stakeholder per assicurare uno sviluppo persistente della telemedicina;
- un dossier per l’agenzia di accreditamento canadese per produrre i criteri sui servizi di telemedicina,
- ampie consultazioni intermedie e larga disseminazione di informazioni.
Ha prodotto il “Framework delle linee guida nazionali”, che analizza cinque aree:
- standard clinici e risultati,
- risorse umane,
- preparazione organizzativa,
- leadership organizzativa
- tecnologia
e per ciascuna area descrive: “Cosa abbiamo imparato”, “Cosa deve essere considerato”, “Principi guida e Raccomandazioni”.
Le indicazioni canadesi sui criteri da rispettare per permettere al sistema sanitario di sviluppare i requisiti specifici per disciplina mi sembrano ancora valide, nonostante l’età.
Ovviamente le Indicazioni italiane, scritte sull’onda della pandemia per inquadrare il fenomeno tele-visita che ormai stava dilagando incontrollato, somigliano molto a quelle canadesi.
Cosa ha impedito in questi 20 anni di avviare un tranquillo percorso multi-stakeholder del tipo di quello canadese, per arrivare a un documento di consenso con il contributo di tutte le parti in causa?
Siamo abbastanza maturi per proseguire ora con un dibattito serio tra istituzioni nazionali e regionali, fornitori di tecnologie e di servizi, associazioni dei professionisti sanitari e sociali, associazioni dei cittadini/pazienti, terzo settore, accademia?
L’innovazione è nella distanza o nei Modelli di Assistenza?
Accennavo che ambedue gli approcci si concentrano sulla procedura di telemedicina e sono lontani da una strategia “di sistema” necessaria oggi per innestare – in modo coerente e diffuso – queste procedure all’interno di Modelli di Assistenza innovativi. In questo modo la tecnologia (e la telemedicina) verrebbe riportata a quello che è: un mero strumento, anche se estremamente utile, per attivare processi di cura innovativi.
Infatti, lo scoglio non è tanto nella distanza (colmabile già da anni con la telemedicina), quanto sul comportamento innovativo di tutti gli attori, paziente compreso. Fare squadra in modo proattivo anche con il paziente stesso e i suoi caregiver richiede un forte cambiamento culturale, più che tecnologico.
La disponibilità a collaborare – e quindi a condividere i dati – non può essere lasciata all’atteggiamento spontaneo di ogni attore. E allora non ci si può fermare ad auspicare la Inter-operabilità (connessione tra soluzioni tecnologiche), ma bisogna mirare alla co-operabilità (connessione tra persone).
In una sala operatoria ottimale ogni attore ha un preciso compito, con procedure ben definite; questo di solito non avviene sul territorio, in quanto lo svolgimento del piano individuale del paziente e la squadra che si forma intorno a lui dipendono molto dall’evoluzione dello stato del paziente e da fattori esterni.
Fare squadra attorno e con il paziente, e sentirsi veramente parte di un sistema, implica un processo culturale a lenta maturazione, su cui finanziamenti e regolamentazione non possono influire più di tanto.
E allora anche i dati clinici verranno registrati, strutturati e resi elaborabili ai fini dell’uso di tutti gli attori che ruotano intorno al paziente (e potranno essere oggetto a ragione di ulteriori studi di Real World Evidence).
Tutti questi tipi di problemi si intrecciano tra di loro: affrontare la distanza con la telemedicina, attivare il paziente sull’auto-cura, assicurare l’interoperabilità delle tecnologie, far maturare la co-operabilità, ottenere dati di qualità riusabili. Occorre una visione complessiva.
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