La telemedicina è morta, lunga vita alle telemedicine!

Il termine «telemedicina» è ormai obsoleto. Va sostituito da termini non ambigui per identificare una serie di «telemedicine», cioè di modelli di cura specifici, supportati dalle tecnologie digitali.

Solo così sarà possibile predisporre una “cassetta degli attrezzi” per affrontare il cambiamento dirompente dei sistemi sanitari e sociali richiesto con urgenza dai mutamenti demografici ed economici.

Ma esiste ancora la «telemedicina»?

In Catalogna parlare al telefono con il proprio medico è considerata una delle modalità di “telehealth”. Perché no? In fondo, si tratta di un contatto a distanza.
Invece la presa in carico domiciliare di pazienti anziani multi-patologici, che ricorre di routine a soluzioni tecnologiche, lì si chiama semplicemente “assistenza domiciliare”, senza prefissi del tipo “tele-“ oppure “tecno-”.

Il linguaggio riflette il modo di pensare corrente ed evolve nel tempo. Oggi in Catalogna è opportuno distinguere i contatti con il medico in presenza da quelli a distanza, mentre è dato per scontato che l’assistenza domiciliare si appoggia sulle tecnologie.

Nel nostro Paese ormai si parla pigramente di «telemedicina» da decenni, ma non è stata mai portata a sistema a livello nazionale, nonostante centinaia di esperienze circoscritte.

La parola «telemedicina» a volte evoca una panacea che risolverà tutti i problemi della sanità; spesso viene usata nel linguaggio comune per indicare un mondo estremamente vasto, arrivando persino a comprendere tutti gli utilizzi del digitale nel dominio della salute, sovrapposto a «sanità digitale», «salute connessa», e via di seguito.

Tali usi del termine denotano la nostra arretratezza rispetto alle potenzialità delle soluzioni tecnologiche esistenti, descritte in un precedente articolo.

Ora la pandemia ha portato prepotentemente alla ribalta questo settore, alimentando l’immaginario collettivo. In realtà si è trattato in genere di una specifica applicazione delle piattaforme di videoconferenza, usate in modo disinvolto per fare «visite» a distanza.

Tuttavia, oggi non è più il caso di discutere su cosa sia la telemedicina (e forse anche la sanità digitale …): ormai elaborare grandi moli di dati e collaborare attraverso la rete e trasmettere a distanza documenti, foto, video e segnali (magari con uno smartphone) è diventato “normale” per moltissime persone e specialmente per i giovani, nativi digitali.

È invece sempre più necessario sviluppare e adottare un linguaggio tecnico uniforme per caratterizzare le varie «telemedicine», cioè i principali modelli di cura messi in atto nelle iniziative di cambiamento dei processi, con il supporto delle soluzioni tecnologiche.

La trasformazione dei modelli di cura nella Disruptive Health Innovation

Già da prima della pandemia i sistemi sanitari e sociali erano sotto stress per il sovrapporsi di fattori demografici ed economici e si era presa coscienza della necessità di una “Disruptive Health Innovation” per trasformare i sistemi sanitari e sociali sfruttando anche le opportunità offerte dalle tecnologie.

Si stanno sviluppando numerose iniziative, indipendenti tra loro, che utilizzano molteplici modelli di cambiamento con i doverosi adattamenti locali, e fanno parte di un continuum in cui la rilevanza passa gradualmente dalla tecnologia agli aspetti clinici, organizzativi e strategici.

Ad un estremo ci sono infatti gli strumenti infrastrutturali delle Agende Digitali, che sostituiscono procedure operative cartacee e possono essere regolati in vario modo. Si tratta di soluzioni che aumentano l’efficienza, ma non incidono sull’essenza del processo di cura. Pur con diverse varianti, è abbastanza chiaro cosa si intende oggi per «Fascicolo Sanitario Elettronico», «Ricetta digitale», «Centro Unico di Prenotazione».

All’altro estremo ci sono invece il Chronic Care Model, il Patient Empowerment, e altri modelli di presa in carico proattiva relativamente innovativi (sono anni che se ne parla!) che trovano nella tecnologia un formidabile alleato.

L’uso dei termini sui modelli di cura che utilizzano le tecnologie digitali non si è stabilizzato. È un dato di fatto che nasconde una problematica molto più vasta e importante: nel nostro Paese non si è formata una comunità coesa di addetti ai lavori con un proprio linguaggio, mentre il settore evolve in modo frammentato ed è molto arretrato rispetto alle potenzialità offerte.

Per fare progressi rapidi e significativi, come richiesto dall’urgenza di ottimizzare e rendere più sostenibili e integrati i sistemi sanitari e sociali, è opportuno intendersi bene prima di tutto sulle caratteristiche dei tanti modelli di cura adottati nelle varie iniziative (concluse, in corso o pianificate), inquadrando responsabilità, ruoli e obiettivi dei diversi attori (operatori e cittadini) e distinguendo le soluzioni tecnologiche più adatte per supportare processi analoghi su patologie diverse.

L’utilità di termini non ambigui

Due casi possono aiutare a chiarire l’utilità di disporre di descrizioni accurate e condivise dei vari modelli di cura, da usare come riferimento con termini non ambigui almeno tra gli addetti ai lavori.

La Catalogna ha caratterizzato e “istituzionalizzato” a livello regionale tre modalità di interazione tra paziente e MMG: «videoConsulta», «eConsulta» e «Trucada telefònica». Si tratta rispettivamente di modalità legate all’interazione video, alla trasmissione (asincrona) di documentazione e, perché no, anche alla abituale chiamata telefonica.

Non importa come vengono chiamate queste diverse prestazioni nel linguaggio corrente, l’importante è che nelle istruzioni ai professionisti e al pubblico sia chiaro come utilizzare al meglio le diverse modalità, che siano definiti il ruolo e i limiti delle tecnologie, e che nel sistema informativo di routine (se funziona bene) siano ben riconoscibili e quindi registrabili: per esempio uno dei sottoprodotti è questo tipo di grafico, che fa vedere l’evoluzione del loro utilizzo giornaliero nel corso della pandemia.

Cioè è stato possibile monitorare l’andamento dei fenomeni nei singoli distretti della regione ed in teoria sarebbe possibile – se si usassero criteri di riferimento comparabili – confrontarlo con le esperienze in altre giurisdizioni, dal punto di vista della copertura dei servizi, della soddisfazione di operatori e cittadini, e delle soluzioni tecnologiche adottate.
Così potrebbe anche essere utile confrontare l’approccio catalano con i protocolli sulle modalità di “telehealth” stabilite da VHA, che permetterebbe di studiare che rapporto c’è tra le due esperienze e quanto siano generalizzabili.

L’altro caso riguarda il modello della «Atenció Domiciliària». In Catalogna è scontato che oggi il follow-up domiciliare efficace di pazienti multi-patologici richiede un uso ampiamente articolato di tecnologie, ma non lo chiamano né tecno-assistenza, né tele-monitoraggio, né telemetria.

La figura mostra che lì si chiama semplicemente “Assistenza Domiciliare” e non c’è bisogno di richiami specifici per dire che si usano le tecnologie né occorre aggiungere, vista la tipologia degli assistiti, che per la maggior parte si tratta di pazienti anziani e multi-patologici (l’intensità del rosso corrisponde al numero di patologie).

Rendere confrontabili le descrizioni delle iniziative

La Disruptive Health Innovation implica un progressivo cambiamento strutturale del sistema sanitario e sociale, a partire dai modelli di cura e non dalla soluzione tecnologica adottata. In conseguenza è assolutamente prioritario concordare tra gli addetti ai lavori una descrizione operativa dei principali modelli di cura e delle tecnologie sottostanti.

Per fare veri progressi nel settore della sanità digitale (o delle telemedicine) occorre rendere confrontabili in modo sistematico le esperienze, definire i tratti salienti di ogni tipo di iniziativa e le varianti motivate, capire quali possono essere le soluzioni tecnologiche più adatte in ogni scenario.

Le tipologie dei modelli di cura possono essere moltissime.

Le raccolte non strutturate di buone pratiche, e gli elenchi di “tele-nomi”, con eventuali brevi descrizioni (come ad esempio quelli forniti dalle Linee di indirizzo ministeriali oppure dagli articoli di Mangia e Colli Franzone su questo blog) sono certamente utili, ma non bastano: occorre scendere più nel dettaglio sui singoli modelli di cura che usano in modo adeguato la tecnologia esistente, con i loro adattamenti ai contesti locali (vedi il confronto di 20 progetti nel comune di Badalona oppure il confronto di 6 progetti italiani di assistenza domiciliare, prodotto in STOPandGO).

Una “cassetta degli attrezzi” per affrontare un cambiamento dirompente

L’urgenza di attuare la Disruptive Health Innovation chiede, oltre ai finanziamenti, alla formazione, alle norme, anche nuovi strumenti di progettazione partecipata che vedranno come co-protagonisti attori con diverse culture: manager, clinici, economisti, tecnologi.

È il caso di approfittare dell’onda mediatica sulla telemedicina, per avviare una sistematizzazione del settore, per rendere coerenti e non ambigue le descrizioni dei modelli di cura e per costruire alcune tassonomie per ordinare i modelli secondo diversi principi.

Il primo passo potrebbe identificare i concetti utili nel settore e le loro relazioni per sviluppare una «ontologia di riferimento», mentre una «nomenclatura di riferimento» potrà associare un nome ad ogni modello di cura e alle sue varianti, per poi produrre rapporti, valutazioni, manuali.

Solo in questo modo sarà possibile costruire una «cassetta degli attrezzi» per progettare, misurare, confrontare l’adattamento di ogni tipo di modello al contesto locale delle singole iniziative e per evidenziare le corrispondenti potenzialità delle tecnologie digitali.

1 – Continua

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