Proseguendo l’analisi sull’uso delle chatbot in sanità, descritte nell’articolo di Antonio Porcelli la settimana scorsa, approfondiamone l’applicazione in un campo particolarmente delicato: la salute mentale.
Si chiama Woebot, letteralmente robot della sofferenza, una chatbot creata da Alison Darcey, psicologa dell’università di Standford, che risponde attraverso Facebook Messenger o mediante una app per iOS e Android a richieste di supporto da parte di persone in difficoltà.
Woebot può fornire una forma di terapia cognitivo-comportamentale (o CBT – Cognitive Behavioural Therapy), chiedendo alle persone come si sentono attraverso brevi conversazioni quotidiane. Woebot impiega anche video e consigli utili a seconda dell’umore del momento e di come la persona risponde alle domande, grazie anche a funzioni di machine learning. Woebot è il frutto di diversi anni di studio sul tema dei chatbot e sulla possibilità di digitalizzare alcune forme di terapia che si svolgono attraverso conversazioni.
Attraverso le conversazioni che porta avanti con il paziente, Woebot impara i tratti del suo carattere e parallelamente cerca di dare consigli utili su come gestire le emozioni negative. Si tratta di un approccio puntuale e mirato su situazioni specifiche, in cui si parte da un problema e chattando si cerca di definirne le possibili soluzioni.
Woebot è stato progettato per avvicinare le persone, specie quelle più giovani, alle conversazioni terapeutiche. È uno strumento di auto-aiuto, di incoraggiamento e supporto ma, precisano i suoi creatori, non intende assolutamente sostituirsi alla terapia vera e propria.
L’efficacia clinica di Woebot è stata valutata in uno studio condotto nell’università di Standford su due gruppi di 70 giovani tra i 18 e i 28 anni. L’85% dei partecipanti di età compresa tra 18 e 28 anni che hanno utilizzato Woebot quotidianamente hanno riportato una significativa riduzione di sintomi di ansia e depressione già dopo due settimane, misurate attraverso la Patient Health Questionnaire (PHQ-9), la Generalized Anxiety Disorder 7-item scale (GAD-7) e la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS).
È bene però precisare che lo studio è stato finanziato dalla società produttrice della app, che una delle autrici dell’articolo è Alison Darcey, fondatrice e CEO della società e che, per quanto riguarda l’aspetto metodologico, ci sono diverse criticità, tra cui il basso numero (70) e la selezione non casuale dei partecipanti (sono stati selezionati volontari in un campus universitario nell’area di New York di livello socioeconomico medio alto). Inoltre la mancanza di un follow up rende poco generalizzabili i risultati, per cui gli stessi autori sottolineano l’esigenza di ulteriori studi per determinare se realmente questa app aiuti nella gestione di sintomi ansioso depressivi.
Woebot è gratuita e se avete voglia potete provarla sul vostro PC o sul vostro smartphone scaricando l’app, a patto però di conoscere l’inglese.
Woebot non è l’unica app del genere. Molte startup si sono lanciate in questo campo, anche perché secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono più di 300 milioni le persone nel mondo con disagi psicologici. Shim è un’app nata a Stoccolma, basata sulla terapia cognitivo-comportamentale, molto simile a Woebot.
Tom Insel, lo psichiatra che ha svelato l’effetto dell’ossitocina sull’umore, ha fondato Mindstrong, una società che offre app per i pazienti, i centri di cura e servizi di telepsicologia e telepsichiatria. Tess è un’app e una chatbot per la salute mentale sviluppata da X2. L’app olandese Emma è stata pensata per aiutare chi soffre di forme lievi di ansia.
Anche se a detta di diversi esperti la terapia cognitivo-comportamentale può essere trasformata in digitale con l’uso combinato di chatbot e tecniche di intelligenza artificiale, ci sono al momento alcuni limiti. Queste app, per quanto evolute, non sono in grado di cogliere alcune sfumature che possono essere colte solo di persona, come il linguaggio del corpo o il tono di voce, che possono fornire importanti elementi.
Manca poi la dimensione umana, chattare con un robot, non è certo come parlare con una persona in carne ed ossa. L’empatia e il calore umano non possono essere ancora riprodotti dalla tecnologia.
Un esempio di come le nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale si spingono sempre di più in campi dove ancora oggi è l’uomo a fare la differenza. Il potenziale dei chatbot non è in discussione e non lo è nemmeno il ruolo centrale dell’uomo che deve contribuire fortemente alla crescita di questa tecnologia affinché – un domani vicinissimo – diventi davvero utile per la società.
“Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano.”
(Paulo Coelho)