
La prossimità è una “condizione abilitante” per potenziare la sanità territoriale ma non sufficiente. Paradossalmente la dispersione di risorse e l’adozione di modelli di cura pro-attivi potrebbero peggiorare il livello dei servizi anziché migliorarlo.
L’aspetto più rilevante della riforma della sanità territoriale, finanziata con i fondi del PNRR, è la realizzazione di circa 2.500 nuove strutture di prossimità per avvicinare ai cittadini una ampia gamma di servizi socio-sanitari.
Il concetto alla base di questa scelta è l’idea che per adottare alcuni modelli di cura, come ad esempio la medicina di iniziativa, nonché per erogare alcune prestazioni, sia necessario aggregare fisicamente le professionalità necessarie e realizzare delle strutture in cui collocare le risorse necessarie (ambulatori, apparecchiature, sistema ICT, etc..). Si tratta di un processo nato con le AFT e le UCCP per superare i limiti del singolo medico di famiglia con il proprio studio.
Il piano prevede un bacino di utenti di 40-50.000 abitanti per ogni Casa della Comunità che possono essere Hub oppure Spoke, mutuando il modello già in uso per la rete ospedaliera. La Casa della Comunità sarà lo sportello fisico per richiedere prestazioni socio-sanitarie (Punto Unico di Accesso) e il luogo per ottenere assistenza infermieristica, servizi diagnostici di base, cure mediche primarie e per la gestione delle cronicità.
Per i cittadini la disponibilità di strutture più vicine rispetto agli ospedali e agli ambulatori già presenti sul territorio è certamente un aspetto positivo a patto però di trovare nelle prime i servizi e le risposte di cui hanno bisogno. Le competenze specialistiche sono oggi concentrate negli ospedali e per spostare la domanda verso le nuove strutture sarà quindi necessario garantire in queste un buon livello professionale, altrimenti avverrà quello che già succede nella rete ospedaliera, ossia la concentrazione della domanda nelle strutture dove operano i migliori specialisti. La ricerca del “medico bravo” è una legittima aspirazione di ogni paziente che per essere visitato non esita a spostarsi.
La riduzione dei tempi di attesa, uno dei problemi più sentiti da parte dei cittadini, si potrà avere realisticamente parlando solo con un aumento dell’offerta dal momento che contenere e governare la domanda è molto complicato. La scommessa è se con le Case della Comunità si riuscirà ad aumentare la capacità complessiva di servizi specialistici, ovvero se si riuscirà ad ampliare l’organico di medici o se si sposteranno alcuni di loro nelle nuove strutture lavorando in un contesto a iso-risorse.
Anche la decisione, assolutamente condivisibile, di praticare la medicina di iniziativa richiede più medici e infermieri. In un sistema attuale dove già la medicina di attesa è in sofferenza, adottare un modello pro-attivo di prevenzione e cura richiederebbe nuove figure professionali da dedicare a questo scopo. Gli standard emanati da Agenas non chiariscono se le figure previste sono da considerarsi aggiuntive rispetto alla pianta organica esistente oppure no.
Il rischio è di fare con il personale il “gioco delle tre carte” che, come sappiamo, non prevede la vincita per il giocatore.
Se per le strutture di assistenza e cura (Case e Ospedali della Comunità) ha senso il concetto di prossimità, meno comprensibili sono i criteri che hanno portato alla scelta di collocare una Centrale Operativa Territoriale per distretto. In tutti i settori in cui si erogano servizi a distanza si realizzano centri di medie – grandi dimensioni per consentire economie di scala, sinergie ed efficientamento delle risorse. Ai possibili vantaggi di operare in una dimensione locale si contrappongono i limiti e i costi di una scelta che è poco efficiente e scalabile.
Manca infine una visione più moderna del possibile contributo che le tecnologie ICT potrebbero fornire per supportare medici ed infermieri nella gestione delle cronicità e della medicina di iniziativa. Ad oggi i sistemi informativi sono ancora considerati come meri contenitori di dati e non come strumenti operativi per l’ingaggio dei pazienti.
In conclusione la prossimità è una “condizione abilitante” per potenziare la sanità territoriale ma non sufficiente. Paradossalmente la dispersione di risorse e l’adozione di modelli di cura pro-attivi potrebbero peggiorare il livello dei servizi anziché migliorarlo. Il riscontro che ho, parlando con direttori generali e funzionari regionali è che, mentre è ben definito il piano di realizzazione delle nuove strutture, c’è molta incertezza su come dotarle di personale.
Gentile Direttore,
condivido pienamente la sua visione e alcuni timori, a mio avviso, molto rilevanti.
Il PNRR ha dato sì la possibilità di cambiare ma al fine di investire sul futuro e non solo sulle infrastrutture. Sicuramente, vi è un bisogno grande di rinnovare ambienti e tecnologie. Questo da molto tempo e quasi ovunque in Italia. In ogni caso, il vero obiettivo deve essere, innanzitutto, in una politica del Personale capace di investire sul presente e sul futuro, dando valore ai professionisti per le proprie competenze, consentendo una vita lavorativa in equilibrio con la propria vita personale, riconoscendo la possibilità di carriera, al riparo da logiche di mero comodo.
Il paziente cerca il miglior medico, la migliore equipe, le migliori cure. Non basta avere uno sportello vicino, se dietro non c’è un percorso efficiente ed efficace che garantisca qualità della diagnosi, della cura e dell’ assistenza.
Maria Grazia Cattaneo