La sanità, per la sicurezza, ha preso molto dall’aviazione, ma non tutto

Lucien Leape per National Patient Safety Foundation

Il mondo dell’aviazione civile e la forte attenzione sulla “safety” hanno inspirato i modelli di rischio clinico che oggi vengono impiegati negli ospedali. Tralasciando però alcuni aspetti molto importanti.

Le check list, l’incident reporting, le metodologie per lavorare in squadra sono solo alcuni degli strumenti che la sanità ha mutuato dall’aviazione, dove le politiche di gestione del rischio sono state adottate già a partire dai primi anni 70.

Ci sono però alcuni aspetti, strettamente legati alla sicurezza, che non stati presi in considerazione e rimangono peculiari del mondo dell’aviazione. Vediamo quali, facendo un parallelo tra me stesso, pilota per passione e un chirurgo.

Per volare o svolgere la professione di chirurgo sono necessarie una formazione specifica e degli esami che abilitano all’esercizio di un hobby (nel mio caso, ma ancor di più il discorso vale per i piloti commerciali) o di una professione.

Per poter pilotare un aereo bisogna essere “current“, concetto non previsto nella professione di chirurgo, ad eccezione del conseguimento dei crediti formativi ECM previsti dalla normativa, sui cui limiti si potrebbe parlare a lungo.

Come pilota non professionista, dopo i 40 anni, devo superare una visita medica e alcuni esami strumentali ogni anno (sei mesi per i piloti professionisti); i chirurghi sono sottoposti a una sorveglianza sanitaria periodica che, il medico competente, definisce in base ai livelli e alle tipologie di rischio.

Per poter volare e ottenere il rinnovo della licenza di volo (revalidation) devo svolgere, ogni due anni, un numero minimo di ore come pilota in comando e superare un check di controllo con un istruttore. Se non possiedo entrambi i requisiti smetto di volare a meno che non svolga e superi una nuova attività addestrativa. Niente di tutto ciò esiste per i chirurghi; quando lo si diventa è per sempre.

Si potrebbe poi parlare delle abilitazioni ai tipi di velivoli, per determinate tipologie di volo ed altro ancora ma mi fermo qui per non annoiarvi.

Qualcuno potrebbe pensare che il parallelo sia inappropriato o che sia esagerato confrontare un pilota con un chirurgo. Se però la sanità ha sentito il bisogno di studiare e adottare le metodologie sulla sicurezza dell’aviazione, vuol dire che a livello di complessità e di rischiosità i due mondi non sono poi così distanti.

Solo negli Stati Uniti, per fare un esempio, si stima che muoiano ogni anno dai 48 ai 96.000 pazienti a causa di errori medici; è come se, ogni giorno, cadesse negli USA un Jumbo Jet (747).

Un mio errore, mentre piloto, potrebbe mettere a rischio l’incolumità dei miei eventuali passeggeri (2-3) oppure di persone o cose a terra. Anche un chirurgo può mettere a rischio l’incolumità dei suoi pazienti, ma non è prevista un’attività minima o che superi dei controlli per certificare la sua perizia e la sua competenza.

Non sarebbe il caso, per la sanità, di adottare anche queste politiche di sicurezza dell’aviazione?

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