I circoli chiusi dell’innovazione: vecchi metodi per pensare, in pochi, il futuro della sanità digitale

Mi occupo da tanti anni di sanità digitale e, in questo tempo, sono cambiate molte cose. La tecnologia ha trasformato il modo in cui comunichiamo, lavoriamo, offriamo i nostri servizi e le nostre competenze. La platea degli addetti ai lavori si è ampliata e ha visto la presenza sempre più massiccia di giovani e di donne. Eppure, in questo scenario, ci sono riti e abitudini che si ripetono, uguali, con piccoli cambiamenti esteriori.

I tavoli, a volte tavolini, in cui discutere e parlare del futuro sono sempre esistiti. Quando non c’era internet era l’unico modo per radunare delle persone e ragionare insieme sull’innovazione. Richiedeva tempo, risorse e capacità e per questa ragione è diventato un business, rispettabile e utile al sistema, che svolgeva una funzione che il pubblico e anche gli enti di ricerca, chiusi nel loro mondo, non assicuravano.

Catalizzare, promuovere e stimolare l’innovazione in questo modo aveva naturalmente dei limiti: la remunerazione del lavoro portava a coptare e coinvolgere le persone non in base al merito o alle loro effettive capacità di contribuire all’innovazione ma in funzione dell’apporto economico che essi erano in grado di assicurare o del ruolo che essi possedevano all’interno delle organizzazioni clienti. Chi contribuiva economicamente (i fornitori) aveva interesse a promuovere i propri prodotti e servizi, indipendentemente dal loro grado di innovatività e, soprattutto, a incontrare i loro potenziali clienti, soprattutto i decisori della spesa, ossia i vertici apicali. Quanto poi questi fossero realmente in grado di esprimere un contributo all’innovazione della sanità era un particolare secondario.

L’efficacia di questi tavoli, dal punto di vista della spinta e la progettazione dell’innovazione, era tutto sommato bassa; sicuramente migliore dal punto di vista del business. Personalmente non ricordo, ma sono pronto a fare ammenda e a citare in un prossimo articolo delle eccezioni, niente di significativo che sia scaturito da questi consessi, pur avendo partecipato a diversi di essi.

Come dicevo in premessa negli anni la tecnologia ha radicalmente trasformato il modo in cui lavoriamo, facciamo ricerca e comunichiamo ma osservo, con un certo stupore, che il modello dei circoli chiusi resiste e rimane sostanzialmente invariato nonostante siano cambiati gli assunti di base, i vincoli che ne condizionavano l’esercizio, il modello culturale che considera la conoscenza e l’esperienza su basi più democratiche rispetto al passato. Persiste un atteggiamento elitario che personalmente trovo anacronistico e non aderente alla realtà.

Pensare di elaborare e calare dall’alto l’innovazione non è solo irrealistico ma controproducente. Innovare è molto complicato e difficile, come ben sa chiunque, per lavoro, se ne occupa. Per questa ragione è necessario coinvolgere le persone in modo trasversale, su base meritocratica, in funzione della loro reale attitudine all’innovazione, con un modello che sia realmente partecipativo, collaborativo e inclusivo.

Pensare che qualche decina di persone, magari anche piuttosto in là con gli anni, possano realmente incidere sul cambiamento e spingere l’innovazione è davvero singolare. L’esperienza e la realtà dei fatti lo dimostrano in modo incontrovertibile. Perché allora non cambiare modello di innovazione, sfruttare le tecnologie che oggi abbiamo per progettare, insieme, la sanità digitale del futuro?

Voglio precisare che la mia non è una posizione ideologica contro chi, per lavoro, si impegna e si adopera per promuovere l’innovazione. Conosco e stimo molti di essi, ne apprezzo il valore e la competenza. La mia è una critica al modello che essi perseguono, vecchio e anacronistico, una spinta a rinnovare il modo con cui concepiscono e realizzano la loro missione. Non basta infatti essere social o usare i media per essere inclusivi o rendere partecipe l’ampia platea degli stakeholder interessati alla e dalla innovazione. Occorre il coraggio di ripensare i propri modelli anche perché parlare di innovazione, usando vecchi schemi, non è credibile.

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